Emanuela Negro Ferrero

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Quali sono i musei più social?

Secondo le classifiche di Museum Analyitics il patrimonio turistico tricolore viene valorizzato poco su Facebook rispetto alle altre strutture nel resto del mondo. Tra i migliori il MAXXI: “Programmiamo la nostra presenza online con piani triennali”La palma va quindi al MAXXI di Roma. Seguito dalla Triennale di Milano e dal MART di Rovereto.

Se poi, però, si entra in rapporto con i colossi del resto del mondo (vedi MoMA), ecco che emergono i grandi divari.

Si parla di questo in un articolo pubblicato su Sky.itche mostra le classifiche di Museum Analyitics, progetto che aggrega statistiche sulla popolarità web di oltre 3 mila musei del mondo. Ancora una volta, emerge la difficoltà del nostro Paese di valorizzare e promuovere il suo patrimonio, stavolta in ambito digitale. La conferma di questo arriva, inoltre, a pochi giorni dalla pubblicazione di uno studio di Eurostat, che ha relegato l’Italia all’ultimo posto per quanto riguarda gli investimenti per la cultura in percentuale sul totale della spesa pubblica.

È una situazione triste, aggravata dal fatto che i nostri musei pubblici “patiscono difficoltà economiche ed inefficienze che li portano ad incassare, tutti insieme, il 25% in meno del Louvre da solo. È il risultato, si dice, dell’assenza di una strategia complessiva”.

A quando una strategia, una politica valida? V’invito a continuare la lettura dell’articolo: I musei più social: l’Italia è all’85esimo posto.

 

Criteri per un Personal Branding efficace

Torno a scrivere due parole sul Personal Branding, che  non è una tecnica per trovare lavoro in rete. O meglio, lo è nella misura in cui, individuato il proprio core value,  lo si usa per compilare  i propri profili social e la comunicazione  digitale esprimendo il proprio sé più autentico e i propri valori al mondo.  Rischiando così di andare a fare il lavoro per cui si è nati.

Un piccolo elenco di “perle di saggezza” da leggere e conservare.

1. Autenticità. Essere il tuo brand. Tu sei il CEO della tua vita. Il tuo brand deve essere costruito sulla tua vera personalità. Deve riflettere il tuo carattere, valori, visione e comportamento. Dovrebbe essere allineato con la tua Ambizione Personale.

2. Integrità. Devi aderire al comportamento morale e comportamentale della tua Ambizione Personale.

3. Consistenza. Devi essere consistente nel tuo comportamento. Questo significa avere coraggio. Gli altri possono contare su di te? Fai sempre le cose allo stesso modo? Un esempio? L’ovetto Kinder è sempre uguale. La Nutella è sempre uguale.

4. Specializzazione. Focalizzati su di un’area di specializzazione. Sii “choosy” e quello che sai fare imparalo sempre meglio. Cerca di essere preciso su di un aspetto unico, un solo talento. Essere generalista non ti porta da nessuna parte, genera confusione in chi ti ha di fronte.

5. Autorevolezza. Devi essere percepito come un vero specialista del tuo settore. Solo tu puoi fare certe cose e le puoi fare in quel modo.

6. Distinzione. Distinguiti per il tuo claim. Deve essere espresso in maniera tale da risultare unico e ben riconoscibile e, soprattutto, ben comprensibile. “Dove c’è Barilla c’è casa”. Più chiaro di così!

7. Rilevante. Ciò che tu affermi deve metterti in connessione con ciò che il tuo target di riferimento considera importante.

8Visibilità. Deve essere trasmesso e trasmesso e trasmesso, continuamente e ripetutamente, fino a che rimane impresso nella mente.

9. Persistenza. Il tuo brand ha bisogno di tempo per crescere. Deve essere sviluppato organicamente. Devi essere resiliente, non mollare. Grandi brand come Tiger Woods, Oprah, Madonna o, per restare in Italia, Luciana Littizzetto o Gramellini, hanno impiegato anni prima di diventare ciò che sono.

10. Benevolenza. Le persone fanno affari con chi trovano simpatico. Il tuo Personal Brand produrrà risultati migliori e durerà più a lungo se vieni percepito in  maniera positiva. Bill Gates, da quando ha aperto la sua fondazione, è certamente percepito come un grande benefattore.

11. Performance. La performance è importante. Se non cresci e non migliori continuamente, sviluppare un Personal Brand non serve a un bel niente.*

*Liberamente tratto da “Authentic Personal Branding” di Hubert K. Rampersad.

 

Siddharta. Il Musical

Dopo Roma e Milano, finalmente anche a Torino.

La scorsa domenica sono andata al Teatro Alfieri per vedere l’atteso musical Siddharta.

Lo spettacolo, liberamente tratto dall’omonimo grande classico del 1922 di Hermann Hesse (di cui ricorrono i 50 anni della morte), e adattato e diretto dalla cantautrice e regista IsaBeau, mette in scena la storia del Principe Siddharta che si incammina, lasciando il proprio castello dorato, sulla strada della scoperta della vera essenza della vita e delle ragioni della sofferenza.

In un susseguirsi di emozioni e musiche coinvolgenti, di scenografie grandiose e sonorità indiane, si giunge al raggiungimento dell’illuminazione interiore che permette di vivere una vita lunga e realizzata, in cui anche il dolore viene trasformato in saggezza e felicità.

È un canto di ricerca e amore, un’occasione che attraversa e risveglia. Davvero bello.

Italia: startup in crescita

In poco meno di tre mesi in Italia sono nate 453 startup.”

Ancora un articolo, ancora startup. Stavolta dal Corriere della Sera, che segnala un fenomeno sempre più in crescita.

Trovo interessante questo breve post che rappresenta una pillola di speranza per i tanti ragazzi senza lavoro. Nel senso che il lavoro te lo crei e te lo gestisci in assoluta libertà, uscendo dalla paranoia del posto fisso. In questo senso la Fornero, con la frase antipatica “non siate choosy” ha detto una mezza verità. Certo, avrebbe potuto scegliere un termine meno arrogante, magari suggerendo ai ragazzi di seguire i propri sogni. Choosy lo intendo oggi come un suggerimento quasi materno, un invito ad  essere selettivi e ad ascoltare la voce del proprio cuore.

“La moda delle startup”

“Da mesi si sente parlare pressoché in ogni dove di startup. Quasi che gli startupper italiani possano essere dei taumaturghi in grado di sanare le piaghe del nostro malandato sistema produttivo. Il dibattito, come spesso accade, non è immune da un certo tasso di superficialità e di provincialismo con cui una parte dell’informazione, quella più mainstream, e la politica affrontano la questione.”

Se fino a ieri era tutto cloud o social, oggi è startup. Lo scrive Giovanna Melandri in un articolo – La moda delle startup e l’importanza di sbagliare (e dirlo) – pubblicato oggi su CHE FUTURO.

Vorrei condividere con voi quanto ha scritto a proposito del problema dell’innovazione in Italia e del movimento che si è creato attorno alle startup, qualcosa di assolutamente salutare che andrebbe trattato con maggior riguardo e profondità.

Qui il link all’articolo e un interrogativo che rilancio: “Sarà in grado la nuova “Politica del Cambiamento” di rinunciare alle tentazioni particolaristiche e fare sistema per costruire un clima favorevole all’innovazione, alla creatività e allo spirito imprenditoriale?”.

 

La Cultura salverà l’Italia. Ora, salviamo la Cultura

Leggo con interesse dell’intervento del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, intervenuto a Roma nella sede dell’Accademia Nazionale dei Lincei, a un convegno bilaterale italo-brasiliano su «Cultura, scienza, diritto e sostenibilità: strumenti per la tutela del patrimonio» (l’incontro è stato organizzato da Anpr – Associação Nacional dos Procuradores de República.

«Il nostro Paese – afferma il presidente di Confindustria, nel suo intervento al convegno – genera circa 80 miliardi di euro di fatturato con l’industria della cultura e della creatività, equivalente al 2,3% della ricchezza nazionale, con circa 600 mila addetti del settore». «Il numero di occupati nell’industria creativa e culturale – sottolinea Squinzi – potrebbe invece arrivare al milione di persone, al pari che in Germania, con un maggior coinvolgimento della presenza delle imprese. Dobbiamo fare un salto di qualità delle politiche verso una concezione moderna e innovativa che sappia conciliare proprietà pubblica, bene comune e gestione privata, dimensioni cooperative e non conflittuali. Sfruttando meglio l’industria della cultura e della creatività si potrebbero generare 400 mila posti di lavoro».

Bello, bravo, bene. Peccato che la Cultura in Italia sia la prima voce soggetta ai tagli, che gli investimenti siano ridotti all’osso e che si continui a tagliare. Eppure, i dati confermano che la Cultura fa bene al Pil.

Il Giornale dell’Arte, che è la bibbia del settore, riporta che Pasqua (insieme al ponte dei Santi) sono i momenti forti di tutti i musei. In questi due giorni di festa, infatti, Venaria ha fatto quello che ha fatto, ma anche il Colosseo è andato benissimo con oltre 23 mila visitatori, mentre 11 mila (in lieve flessione) ne ha avuti Pompei (altra star tra le mete preferite dai turisti) e oltre 20 mila persone si sono messe in fila alla biglietteria degli Uffizi. Di forti aumenti, rispetto a Pasqua 2012 però, si parla solo per Venaria. I dati pubblicati dall’Istat dicono che i musei italiani nel 1996 avevano 25 milioni di visitatori. Nel 2011 (ultimo dato certificato), si è superata quota 41 milioni. Ovviamente non tutti i musei richiamano allo stesso modo. Nel prossimo numero di maggio, il Giornale dell’Arte pubblicherà la classifica dei musei più visitati lo scorso anno. La grande star è il Colosseo (con il cui biglietto si visitano anche Foro romano e Palatino), che sfiora i 5 milioni e mezzo di visitatori. È seguito da Pompei, che arriva a 2 milioni.

Una cosa che salta all’occhio, e parlo per esperienza diretta, è la scarsa capacità dgli enti culturali di fare comunicazione. Ho già visitato diversi musei, presentato progetti innovativi e interessanti ma nulla, oppure, si è fatto poco. Il dato più evidente è che i musei, da soli, non ce la possono fare. Rimangono i privati, ma la normativa vigente non incentiva le partecipazioni e le sponsorship. Un bel rebus all’italiana e un vero peccato.

(Ph. Alfredo Jaar, Kultur = Kapital, 2012).

Personal Branding. Parte seconda

Leggo con molto interesse che il Personal Branding è diventato argomento da social. Evviva. Questo mi suggerisce che il Personal Branding è in salita e, forse, in auge.

Trovo una grandissima differenza fra gli articoli pubblicati in Italia e quelli americani. Soprattutto, noto che in Italia ci si riferisce al Personal Branding in due modi, quasi sempre non esatti. Il primo è che si tratti di un sistema per trovare lavoro su Internet creando profili ad hoc sui social. Il secondo che sia un lavoro di creazione di un’immagine – il famoso brand – su Internet. Come dire, ti cerco un marchio giusto, un sito giusto un claim giusto ti costruisco profili social ineccepibili e faccio di te un dio. Sì e no. La verità, come accade quasi sempre, sta nel mezzo.

Personal Branding, tanto per chiarire, è una precisa tecnica di comunicazione contenente diversi elementi di coaching, di marketing, di comunicazione d’impresa e studio dell’immagine. È qualcosa che si impara frequentando corsi universitari  – soprattutto americani – e poi con tanta, tanta pratica. Personalmente seguo da anni la corrente creata da Rampersad perchè, oltre ad eccellere nell’aspetto puramente teorico , ha creato una tecnica di analisi e di intervento di taglio olistico molto attuale e che consente di raggiungere risultati di grande eccellenza.

Lavorare per identificare il brand, che sia un’azienda o un professionista, significa fondamentalmente ricercare ciò che è in armonia con i sogni, lo  scopo della vita, i valori, le passioni, le competenze, l’unicità, il genio, le  specializzazioni, le caratteristiche e le cose che il cliente ama fare. In che modo si può fare tutto questo? Seguendo percorsi di analisi e strategie di valutazione aventi come unico scopo quello di definire con chiarezza l’identità personale stabilendo quali sono i veri valori, i punti di forza, l’unicità. Ecco perché la definizione di Personal Branding è olistica. Per esperienza so che questo tipo di lavoro regala un Personal Brand forte, organico e riflette ciò che il cliente ha di più autentico. La vita professionale prende così una piega diversa. Esiste la concreta possibilità di restare nel flusso attraendo situazioni e persone realmente in sintonia con ciò che si è. Un lavoro di Personal Branding meccanico, oserei dire cerebrale, comunica magari una bella immagine, contenuti  perfetti. Ma è qualcosa di fasullo che non porta vantaggio sul medio e lungo periodo. Anzi, voler diventare un prodotto e vendere se stessi, seppure in maniera ineccepibile, comunica egoismo, narcisismo. Manca il cuore, insomma. Manca la verità. Quanti prodotti sono stati creati dal marketing, messi sul mercato e hanno fallito? Con le persone è diverso, perché il Personal Branding si riferisce all’identità e all’essenza.

Questo schema, tratto da uno dei tanti libri che ho studiato in questi anni, a mio avviso riassume bene il concetto olistico del Personal Branding:

no vision + no hope + no faith + no selfknowledge + no self learning + no thinking + no mindset change + no integrity + no happiness + no passion + no sharing + no trust + no love = NO PERSONAL BRANDING.

Come dire, Oprah è Ophrah. Io sono io e tu sei tu. Ognuno di noi ha qualcosa di unico e di speciale. Ecco, il mio lavoro intende estrarre il diamante grezzo e farlo brillare. Utilizzando l’esperienza di comunicazione e di immagine e le tecniche di coaching e mentoring. Mettendo al centro la persona, con tutti gli strumenti che ho a disposizione.

Leggi anche: Personal Branding per sconfiggere la crisi.

Felice Pasqua!

(Ph by Geof Kern)

E si vola…

Auguri a tutti di buona Pasqua!

Il Business adesso è Social

È un momento di grande cambiamento a tutti i livelli. Le aziende stanno attraversando diverse turbolenze che richiedono una grandissima capacità di adattamento e trasformazione.

Dal modello organizzativo dei primi del Novecento, ispirato alla metafora dell’orologio in cui il contributo umano era standardizzato e misurato in
termini di efficienza, tempo, presenza, si è passati ad un modello basato su asset intangibili (l’innovazione, l’esperienza, il brand, i servizi) in continua riconfigurazione. Alle aziende viene chiesto sempre di più di connettere le persone, condividere la conoscenza, le esperienze e apprendere continuamente.

I Social Media sono nati dal basso e sono cresciuti grazie a meccanismi di selezione molto rigidi e hanno dimostrato una fortissima capacità di creare collaborazione (con i Wiki), connettere e comunicare con il proprio network di contatti e attraverso i blog e i microblog, condividere e sfruttare l’intelligenza e le competenze collettive, e sempre più dimostrano di potersi integrare con le dinamiche del lavoro e i vari processi operativi.

Tutto questo si traduce in un investimento fortissimo in comunicazione basata su contenuti interessanti e di qualità. Perché se una volta c’era il sito, oggi il sito da solo non è più sufficiente. Il nuovo consumatore ha subito una sorta di mutazione antropologica. Viene definito “social customer” ed è più intelligente, sa sfruttare le informazioni che gli arrivano sull’azienda e dall’azienda con maggiore efficienza dell’azienda stessa ed è in grado di imporre modalità di comunicazione, servizio e marketing.

Questo significa che l’azienda, o il professionista che non possiede una strategia di social business, presto sarà costretto ad uscire dal mercato.

L’arte di Pietro D’Angelo

Un vernissage interessante per un giovane artista italiano di origini palermitane. 

Il suo nome è Pietro D’Angelo (classe 1974) ed è protagonista di una mostra personale presso la Ermanno Tedeschi Gallery.

D’Angelo è uno sperimentatore, sempre alla ricerca di nuovi materiali. Potrei definirlo un artista “da ufficio”, perché le sue sculture – morbide e rigide allo stesso tempo – sono fatte con puntine da disegno, graffette, viti. Tutti oggetti di uso quotidiano decontestualizzati e trasposti in ambito estetico, per dar vita a delle originali opere scultoree.

Visitando la mostra, ho scoperto che la sua ricerca è iniziata proprio utilizzando dei comuni bottoni attaccati trasversalmente, poi l’innovazione nell’uso dei materiali si è spinta oltre fino ad approdare all’uso delle graffette, oggetti che hanno la proprietà di farsi attraversare dalla luce e di rendere visibile ciò che nella realtà è invisibile. Da qui, la creazione di giochi ottici ottenuti dalla luce riflessa dalle graffette in un rapporto tra pieno e vuoto.

“Il vuoto diventa parte dell’opera, – come ha affermato l’artista – la materia è ridotta a linee olografiche che si snodano nello spazio e grazie al loro colore metallico riflettono la luce e si lasciano attraversare nei vuoti”.

Quello di Pietro D’Angelo è un linguaggio artistico che frantuma il senso unitario delle cose. Ogni stratificazione sembra un abito che dona alle sculture una protezione, una seconda pelle anch’essa frammentaria, fatta di minuscoli dettagli e di piccole parti assemblate.

Il risultato finale è comunque uno spettacolo armonico, che trasforma la realtà in simboli e sogni…