Il governo italiano, unico e primo in tutto il mondo, ha deciso di legiferare sulla sharing economy. Teniamoci forte ragazzi.

Entro Emanuela Negro Ferrero

La strada da percorrere si spera sia ancora lunga. Come parte in causa, auspico che il governo italiano, specializzato in bisticci grotteschi su qualsiasi argomento, si prenda il giusto tempo per

a) mettere a fuoco che cosa è esattamente il fenomeno definito come “sharing economy”

b) realizzi che mettere un freno ad un comparto che sta dando, e ha già dato, lavoro a migliaia di persone che attualmente si trovano senza lavoro proprio grazie all’insipienza del governo stesso, non attrae il consenso popolare. Anzi.
In qualità di gestore di una piattaforma di crowdfunding, ho festeggiato insieme a molti colleghi la recente notizia dello “sblocco” del crowdfunding di tipo equity da parte della Consob. Alleluia. L’ente, quando ancora nessuno in Italia sapeva nemmeno cosa fosse l’equity crowdfunding, ha prudentemente e italianamente deciso di “ingessarlo” con norme e regole favorevoli solo al mondo bancario con il risultato che, se nell’intero pianeta il crowdfunding di tipo “equity” è esploso, da noi no. Complimenti al genio. Spero  che non succeda lo stesso con questa idea di regolamentare la sharing economy ma i presupposti non fanno pensare bene. Mi sembra di capire che il punto nodale per il governo italiano, desideroso di tassare chiunque e qualsiasi cosa, sia quello stabilire la differenza fra sistemi che si fondano sull’idea di condivisione di beni e servizi rispetto a forme di business vere e proprie,

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Il “Sharing Economy Act” è una proposta di legge presentata nei giorni scorsi da un gruppo di parlamentari appartenenti all’Intergruppo “Innovazione” . Lo scopo è quello di «disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi» e di «promuovere l’economia della condivisione». Sulla carta sembra tutto chiaro. Nutro però il terribile sospetto che questo gruppo di volenterosi paladini governativi non abbia la minima nozione del’argomento. Disquisire di “sharing economy”, cioè di “economia collaborativa” tanto per usare l’italiano e farsi capire da tutti, non è cosa affatto semplice né risolvibile in quattro e quattro otto.
Il principio che governa la “sharing economy “ è la condivisione di beni e di servizi con alla base una logica di scambio e condivisione fra le persone. Tutti noi conosciamo e amiamo BlaBlaCar che ci consente di condividere i nostri viaggi con altre persone che, oltre ad aiutarci a sostenere i costi della trasferta ci offrono la possibilità di viaggiare in compagnia e di ridurre il quantitativo di veicoli in circolazione. La piattaforma Zoopa ci permette di generare video, campagne virali, loghi grazie a un sistema di “crowdsourcing” grazie cioè ad una rete di professionisti che mettono la loro professionalità a disposizione ad un prezzo più basso e con un’offerta creativa decisamente più alta. Ci sono poi i progetti open source come, per esempio, WordPress dove moltitudini di sviluppatori mettono le loro conoscenze al servizio della comunità. Ma un piattaforma open source è ben diversa da un’esperienza di car, food o house sharing . L’indagine IPSOSdel 2014, difatti, ha evidenziato come l’adesione all’economia collaborativa non ruoti esclusivamente attorno a motivazioni individuali – come i possibili benefici economici, ma anche al desiderio di contribuire ai bisogni della propria collettività di appartenenza, una forma di adesione a un sistema valoriale condiviso.
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In questo senso moltissimo è stato fatto in diversi ambiti: i FabLab sono laboratori aperti alla produzione collaborativa attrezzati con macchinari e strumenti come stampanti 3D dove chiunque può andare ad auto fabbricare qualunque cosa . Nei cowoorking viene condiviso lo spazio di lavoro e le persone possono aggregare competenze diverse senza essere collegate da vicoli contrattuali.
Ma la collaborazione attiene anche all’ambito del consumo, grazie allo sviluppo di piattaforme e realtà innovative che hanno applicato i principi peer-to-peer a sistemi tradizionali come il baratto, la donazione o lo scambio. Pensate alle piattaforme di crowdfunding, di social eating, di co-housing.
Il punto comune per qualsiasi settore collaborativo -e che sta alla base di tutti questi sistemi – si fonda su di un principio ben preciso che è quello del trasferimento di qualcosa. Questo trasferimento può essere inteso come una forma di scambio o condivisione: ho un’idea, un abito, una casa, un’auto, una barca, un talento e lo metto in comune o lo scambio un’altra persona oppure lo cambio con un altro bene e servizio.
Ci sono poi delle forme di sharing economy dove la collaborazione è un modo per definire nuove forme di mercato che tendono a riprodurre relazioni non necessariamente dissimili da quelle dei mercati tradizionali. Mi riferisco ad aziende che, a fronte di un costo di transazione, mettono in contatto la persona che ha una risorsa (una casa, per esempio ) con un’altra persona che non ce l’ha. Questo tipo di condivisione genera dei profitti (Uber, tanto per intendersi) e si basa sul principio di utilizzo in condivisione di qualcosa che già si possiede, senza quindi una produzione di beni o di servizi. In questo caso la collaborazione si basa sull’accesso alla proprietà e non ha niente a che vedere con lo scambio. Siti come HomeExchange mettono in comune un bene senza che ci sia la possibilità da parte di qualcuno di trarre guadagno da questo scambio.

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Il punto che confonde i parlamentari del gruppo “Innovazione “, nei confronti di aziende come, per esempio,  “Gnammo” è: organizzare un pasto in casa propria con altri utenti chiedendo in cambio un rimborso sui costi sostenuti è un modo per socializzare oppure è un modo pratico per farsi un vero e proprio ristorante in casa guadagnando? E chi guadagna è un libero professionista o è un dipendente? Bei quesiti davvero.
Per  realtà come AirBnb e Uber si può parlare di economia dello scambio mascherata però da sharing economy.
Queste aziende americane non solo fanno enormi fatturati, ma stanno creando una nuova economia di lavoratori “a rimborso spese” che non sono regolamentati né tassati e lavorano senza alcuna copertura assicurativa e, spauracchio italiano, senza tutela da parte dei sindacati. Ed è qui che il gruppo di parlamentari del gruppo “innovazione” ha deciso di andare a legiferare.
Personalmente penso che la sharing economy non vada fermata ma, al contrario implementata con una chiara suddivisione fra la rental economy mascherata da “economia collaborativa” e la autentica “sharing economy”. La proposta di legge del 2 marzo scorso prevede che un utente che arrotonda i suoi introiti affittando stanze, organizzando cene oppure offrendo passaggi con la sua automobile debba pagare una imposta del 10% se i suoi guadagni non superano la cifra dei 10 mila euro all’anno. Superata tale cifra, gli introiti verranno considerati redditi veri e propri e andranno sommati agli altri redditi percepiti. Questo significa che aziende come AirBnb dovranno devono aprire una sede in Italia e comunicare i dati all’Agenzia delle Entrate sulle transazioni economiche tra i propri utenti e che queste transazioni , d’ora in poi, potranno avvenire solamente per vie elettroniche. Ecco qua servito il solito vespaio all’italiana. La proposta avanzata dai nostri prodi parlamentari non spiega perché si debba applicare la medesima aliquota per un passaggio offerto con BlaBlaCar oppure per l’ affitto di una stanza su AirBnb. Anche se i costi di gestione dei beni possano essere molto simili – l’usura della macchina in un caso, le spese vive nel caso dell’affitto di una stanza (tasse, pulizia, manutenzione) –si tratta di due realtà con finalità profondamente diverse. BlaBlaCar è un sistema di trasferimento della proprietà su un bene limitato – io ti offro un passaggio, tu mi rimborsi le spese. AirBnb, invece, è un sistema di accesso alla proprietà che funziona come un vero e proprio contratto di affitto. E’ evidente che gli utenti di BlaBlarCar avrebbero poca convenienza ad usare la piattaforma e quindi il guadagno aggiuntivo e relativo mercato verrebbe affossato.Sto già battendo le mani. La legge infatti propone di istituire un modello fiscale centralizzato per le multinazionali . Questo rischia di apparire deleterio nel caso di servizi online decentralizzati che nascono dal basso e si fondano sui principi dell’economia collaborativa. E proprio il caso di dire, mamma mia!

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La legge inoltre, pur preoccupandosi di tassare i lavoratori freelance che superano certe soglie di reddito ponendo come discrimine i redditi superiori ai 10 mila euro, non indica nulla relativamente ai temi previdenziali o dei diritti di questi lavoratori. Intanto , come si legge sul Manifesto, i quarantasette pilastri dell’economia collaborativa e della condivisione, Uber e Airbnb in testa, hanno scritto una lettera al presidente dell’Unione Europea per sottolinere la loro contrarietà a qualsiasi legge che limiti l’economia collaborativa. Staremo a vedere ma, se l’obiettivo è solo quello di tassare e tartassare, suggerisco ai nostri parlamentari del gruppo “Innovazione” un giretto nel floridissimo mercato dei portali di gioco d’azzardo e pornografia. Tutti rigorosamente con sede all’estero. Tutti esentasse. Due pesi e due misure? Un esempio di perfetto italian style. Quello che tutto il mondo ci invidia?

Emanuela Negro-Ferrero –ceo – www.innamoratidellacultura.it